Un dolcissimo incontro
(parte di un articolo del giornalista Libero Mazzi
tratto dal volume fotografico “Quassù Trieste)

 

Mille finestre che guardano il mare, molte incorniciate ancora dal verde rimasto sulle colline, altre solo dal tenue e sfumato impasto degli intonaci come letto di un grande e sinuoso mosaico. O forse, per il tranquillo ondulare delle linee dei tetti, come formazione di coralli abbandonata dall’acqua e che il sole e l’aria hanno lentamente sbiadita dei suoi colori più accesi. Finestre dalle rive del mare all’ampio spigolo del Carso che racchiude tutta la città. Finestre che guardano, che vivono, che dicono.
Un modo di essere del nord verso la luce e l’alito del Mediterraneo; testimonianza continua di presenza e di abbandoni in mille occhi spalancati sopra un golfo azzurro. Lembo estremo, eppure denso di contrastanti suggestioni, di un mare che rimane sempre mitologico, anche se quassù si fa più pallido e – se la bora non soffia forte – più mite.
Quassù è Trieste. E quando viene la sera e si accendono le luci, quel modo di essere non finisce ma si trasforma, dolce e palpitante, nell’immagine di una città di notte unica al mondo. Ancora il morbido ondeggiare di linee, ancora una tenera, struggente topografia, adesso a punti luminosi ma discreti, che in alto lascia indovinare l’inseguirsi delle vie e delle colline e in basso il respiro delle maree.
Un inseguimento e un respiro come segni di vita notturna, come naturale prolungarsi della veglia del giorno.
Se dall’altopiano scende solo qualche refolo di borino, sono voci isolate e suoni che nel buio della notte ingrandiscono di volume e rotolano verso il largo fino a spegnersi nella laguna di Grado o sulla costa dell’Istria. “Trieste de sera” è il nome di una canzone in dialetto nata nel secondo concitato dopoguerra, quando i giornali di tutto il mondo definivano la città “flashpoint of Europe” per l’asprezza delle contese che la tormentavano, ma essa conserva ancora oggi un significato al di là del patetico offerto dalla melodia e dalle parole. Di notte Trieste, abbracciata da uno dei valichi che si affacciano al Carso o dalla cima di uno dei suoi moli, afferra e commuove come una creatura. Un lungo e impenetrabile mistero se non fossero i primi avvertimenti dell’alba a toglierle magia, a rinnovare un’altra volta le dimensioni di una bella realtà che proprio gli uomini – dopo le coordinate geografiche – hanno reso così enigmatica e curiosa, così inattesa e sconcertante nei suoi risvolti più intimi e gelosi. Da un angolo particolare di lettura vengono incontro le parole di Kafka per Praga: è una città che non ci lascia liberi; è una madre con gli artigli. Ma qui la prigionia è dolcissima, in realtà desiderata; e gli artigli sono mani amorose che racchiudono un piccolo universo: un passato da inorgoglire, tutto l’arcobaleno delle stagioni, il mare che preannuncia Dalmazia e Grecia, la campagna – sull’altopiano vicinissimo – che apre spiragli profondi fino alle foreste cupe e silenziose nel cuore d’Europa; un vento imprevedibile, dalle graffiate furiose, dagli assalti improvvisi e violenti, che riesce a diventare sentimento; le vampate, infine, di una storia movimentata come quelle di ogni città di frontiera dove gli scontri sono più facili degli incontri. Non abbastanza a nord, pochissimo a sud, avamposto dell’est, prolungamento dell’ovest. Il sole nasce a oriente e tramonta a occidente. Quassù è Trieste.

 

 

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