Incipit imposto

Aveva la pasta sul fuoco in cucina, quando squillò il telefono. Alla radio davano la Gazza Ladra di Rossini, il sottofondo musicale ideale per prepararsi un piatto di spaghetti, e Roberto l'accompagnava fischiando. Fu tentato di rispondere, gli spaghetti erano quasi cotti, e Claudio Abbado stava giusto per portare l'orchestra filarmonica di Londra all'apice dell'intensità drammatica.

Così ho proseguito:

Decise di lasciar squillare ancora un paio di volte affinché si attivasse il trasferimento automatico di chiamata e quando sentì trillare il telefonino premette il pulsante che consentiva la comunicazione e la contemporanea registrazione.
Si trattava di un apparecchio veramente sofisticato creato dai servizi, ai quali apparteneva Roberto, per molteplici usi su di un modello Panasonic.
Era Patricia, sua moglie. Parlava concitata e sottovoce e ne fu immediatamente turbato tanto che non ebbe nemmeno il tempo di disattivare la registrazione, cosa che faceva normalmente per le telefonate personali.
“Sono in pericolo……ora vengono…..eccoli!” Era stata l’unica frase e poi la brusca interruzione. Era chiaro. L’avevano rapita. Quello che temeva da tempo visto il lavoro che faceva. Spense allora il rubinetto del gas e lasciò gli invitanti spaghetti esalare l’ultimo respiro nell’acqua bollente.
Passeggiò nervosamente per la cucina pensando cosa fare, come intervenire e soprattutto di chi potersi fidare visti i recenti avvenimenti.
Roberto era un uomo d’azione, freddo e determinato, ma era la prima volta che si trovava in una situazione del genere, perché colpito negli affetti più cari.
Da circa dieci anni lavorava nei servizi segreti, settore operativo, in un'agenzia che si trovava vicino alla stazione ferroviaria, celata sotto il falso nome di una ditta che operava nel settore import – export. Erano una decina di uomini in tutto, più il capo.
Un mese prima avevano fallito una missione preparata meticolosamente e, oltre a non essere riusciti ad evitare l’azione terroristica, avevano perduto due dei propri uomini. Così la raffineria di Valmaura, nella zona industriale di Trieste, era saltata e la cellula terroristica l’aveva fatta franca. Ne avevano parlato i giornali di tutta Italia.
Il capo e gli altri dell’agenzia avevano concluso che era stato il caso ma Roberto non aveva condiviso una tesi del genere perché convinto che ci doveva essere una talpa tra di loro, dal modo in cui si erano verificati gli eventi. Così aveva proseguito il suo lavoro non fidandosi più di nessuno e soprattutto del capo che, uomo intelligente, non poteva, secondo Roberto, aver accettato in quel modo l’insuccesso.
Negli ultimi giorni Roberto, intercettando fortuitamente una comunicazione telefonica tra persone sospettate di far parte della cellula autrice dell’azione, ne aveva individuato il covo ma non ne aveva ancora parlato con nessuno. Solo con Guido, che lavorava con lui, nel suo stesso ufficio, si era lasciato andare a un “forse ci siamo” ma niente di più, nonostante la curiosità dell’amico.
Patricia, che aveva sposato appena sei mesi prima, dopo un fidanzamento altrettanto breve, non sapeva niente dell’attività di Roberto; questa era la regola, per ovvi motivi di sicurezza.
Si era laureata in sociologia all’Università di Trento e ora lavorava al Centro di Fisica nucleare di Padriciano come capo del personale.
Quarant’anni lui, trent’anni lei, formavano una bella coppia. Lui alto, magro, dalla corporatura atletica, capelli marrone scuro e barba nera, portata corta. Lei bionda, classici occhi azzurri, longilinea, corpo perfetto. Si erano conosciuti casualmente a un rinfresco ed era stato per entrambi il classico colpo di fulmine.
Non pranzavano mai assieme perché lei mangiava alla mensa del Centro Nucleare mentre lui, amante della cucina, oltre che della buona musica, si divertiva a prepararsi per pranzo le cose più disparate. Quel giorno era toccato a un semplice piatto di spaghetti il cui destino sarebbe stato quello della spazzatura.
L’incertezza di Roberto, quel giorno, durò poco. Riordinate le idee telefonò all’agenzia. A quell’ora avrebbe trovato certamente Guido e, visto che necessariamente doveva fidarsi di qualcuno, l’avrebbe fatto con il collega del suo ufficio.
Dopo i soliti controlli di codici, di parole d’ordine e della voce, fu messo in contatto con il collega.
“Guido, ho un F316, urgente, devi ricavarmi la localizzazione della chiamata di un cellulare di cui ho il numero. E’ il 3354264934. Attendo in linea".
“Sai che mi necessita qualche minuto, Roberto” fece presente il collega “per cosa ti serve?”.
“Attendo in linea, Guido” replicò Roberto “non fare lo stronzo". Mi conosci e sai che non ti dirò niente.
Silenzio dall’altra parte e poi, finalmente, la voce di Guido: “si tratta di una casa nei pressi di Monrupino, nel Carso. Via Monte Grappa. E’ un’unica casa in quella via. Non si può sbagliare. Aspetta, abbiamo fatto giusto in tempo, qualcuno ha distrutto il cellulare. Non c’è più segnale. Hai dell’altro?”
“Sì, fammi un T49 per il deposito, non c’è il capo e tu sei autorizzato a farlo, in caso di necessità.”
“Ma sei matto? Cosa ti sei messo in testa, di fare la guerra? Da solo?”
“Non fare l’imbecille, sai che sono una persona responsabile. Fammi un T49 per le 16.30 e non rompere.”
“D’accordo” replicò Guido “ma poi risponderai tu al capo”.
“E’ un F316, Guido, non rompere le palle”.
“Stammi bene” finì Guido chiudendo la comunicazione.
Roberto sorrise per le ritrosie dell’amico. Si vestì in fretta perché non c’era tempo da perdere, aveva calcolato bene i tempi. Nella giornata l’operazione doveva essere conclusa.
Alle 16.30, puntuale, arrivò al deposito. Servito dal magazziniere, ritirò una tuta blu scuro, dell’esplosivo plastico e una pistola Beretta, firmò il modulo, salutò l’uomo e se tornò in macchina, la Jeep Capitva 4x4 della Chevrolet che aveva in dotazione, e si avviò verso Opicina.
All’Obelisco si fermò, guardò Trieste sotto di lui, ancora illuminata dalla luce del giorno. Si fumò una sigaretta e attese per una decina di minuti il tramonto. Quando le prime ombre salirono verso il monte ingoiando la città, risalì in macchina e si diresse verso Monrupino. Arrivò alle diciotto, come preventivato. Era metà novembre e faceva buio presto. Aveva il navigatore e si diresse, guidato, verso via Monte Grappa.
Quando arrivò a qualche centinaio di metri dalla via, s'imbucò in un sentiero in terra battuta e allorché fu certo di essere in una zona perfettamente riparata si fermò. Scese dalla macchina, indossò la tuta, prese l’esplosivo e si avviò in direzione di via Monte Grappa.
Guido aveva avuto ragione. La casa, costruita con pietre bianche del Carso, tipica della zona, era isolata. Si avvicinò lentamente percorrendo un vialetto, dietro a folti cespugli. Nessun cenno di vita all’esterno e nemmeno all’interno.
Una grossa porta di legno era l’unico ingresso. Roberto girò tutto il perimetro della casa e piazzò le quattro cariche esplosive in altrettante posizioni strategiche così come gli avevano insegnato al corso.
Completato il lavoro, scivolò come un fantasma verso il portone d’entrata. Aprirlo fu questione di secondi. Silenzio più completo. Indossò gli occhiali speciali a raggi infrarossi. La stanza appariva vuota. Pensò che la cosa fosse alquanto strana; se quella era la casa in cui Patricia era trattenuta in prigionia, come mai nessun segno di vita. Non ebbe però il tempo di pensare ad altro perché un colpo alla nuca lo tramortì e cadde a terra svenuto.
Quando si riebbe, si ritrovò nella stanza illuminata. Di fronte a lui un uomo con la pistola, la sua Beretta. La testa gli girava ancora e la fisonomia dell’uomo gli appariva ancora confusa. Poi riuscì a riprendersi e a mettere a fuoco: era il suo collega Guido, ma il suo volto gli sembrò spietato come se avesse indossato una maschera.
“E bravo il nostro amico Roberto” disse l’uomo. “Non ho avuto nemmeno la necessità di effettuare la ricerca che mi avevi richiesto. Ti ho dato l’indirizzo esatto, come hai visto. Ora andrai a fare compagnia alla tua cara mogliettina. Ma prima permetti che ti faccia legare le mani.”
Roberto era rimasto senza parole. Avrebbe dovuto pensarci che era stato fin troppo facile arrivare fino a lì.
Un altro uomo, che nel frattempo aveva fatto ingresso nella stanza, gli legò le mani dietro la schiena e lo condusse nella stanza attigua. Aprì una botola e lo spinse.
Roberto rotolò giù per le scale ma, per fortuna, rimase a terra soltanto indolenzito. Al centro della stanza, illuminata da una pallida luce, gli apparve Patricia, legata a una sedia.
Le si avvicinò, camminando a carponi, incapace ancora a rialzarsi, per poi sedersi sul pavimento.
“Come stai, tesoro?” le chiese premuroso “ti hanno fatto del male?”
“No. Finora” assicurò la donna “ma tu, piuttosto? E poi, dimmi, ma che razza di lavoro fai? Non sei stato sincero con me. Vero?”
Roberto si sedette. Doveva a questo punto dirle tutto. E così fece, spiegandole che aveva dovuto tacere per il suo bene. Le disse anche che aveva scoperto, il giorno prima, il covo della cellula terroristica che aveva fatto saltare in aria la raffineria e che l’avevano rapita per farlo arrivare in quel posto e capire quanto avesse scoperto. Le parlò anche di Guido, il traditore, la talpa, l’amico di cui si era fidato.
“Ed è questo, il covo?” chiese Patricia che fino a quel momento aveva ascoltato in silenzio.
“No certamente” rispose Roberto “il covo è in via Baiamonti, in un nuovo condominio”.
“E conosci i nomi dei componenti?” chiese ancora Patricia.
“Non di tutti” spiegò Roberto. “So che sono in sei. Conosco i nomi di due, Carlo e Hans, gli uomini di cui ho intercettato la telefonata.”
“E perché non lo hai detto al tuo capo?” interrogò ancora Patricia.
“Perché ero certo che c’era una talpa, in Agenzia, e non mi fidavo di nessuno. Prima di parlarne volevo cercare di capire se potevo fidarmi almeno del mio capo” concluse Roberto.
Patricia non fece altre domande. Si alzò dalla sedia e levò le mani da dietro la schiena perché non erano per niente legate.
“Grazie per le informazioni” disse al marito, ancora seduto a terra, dolorante. “Se proprio lo vuoi sapere, sono io il capo della cellula. E guarda cosa ho dovuto fare per arrivare a te. Ho dovuto sposarti. Non mi sei comunque dispiaciuto. Sai fare bene all’amore. Peccato che tu ora debba morire. Il nostro prossimo obiettivo sarà il Centro di Fisica Nucleare, in cui sono entrata proprio per questo scopo. Un’operazione che ci porterà in prima pagina di tutti i principali quotidiani del mondo. Un’azione clamorosa. Ora però devo andare, abbiamo una riunione qui, tra poco. Sono già tutti qui. Aspettavamo solo te”.
“Ma perché?” chiese Roberto, impietrito dalla confessione della moglie.
“Non te lo posso spiegare. Sarebbe troppo difficile per te capire” disse Patricia risalendo la scala che portava alla botola.
Roberto si slegò presto dai lacci perché il corso lo aveva addestrato bene per queste cose. Si trovava nello scantinato e non ci sarebbero stati problemi per lui, vista la dislocazione della botola.  Estrasse quindi il telefonino, compose la parola in codice “crepa”, premette il pulsante centrale e contemporaneamente esplosero le cariche che aveva piazzato attorno alla casa.
‘Ciao Patricia’ ebbe il tempo di pensare mentre sopra di lui si era scatenato l’inferno. ‘Mi spiace’.
Poco dopo sentì spostare delle macerie e la botola si aperse.
Alla luce delle torce comparve la figura massiccia del suo capo.
“Ti ho lasciato fare” disse a Roberto “perché ho sempre avuto fiducia in te….anche se, dopo il tuo prelievo dal deposito, ho pensato bene di farti seguire.”
Roberto non rispose. Era ancora troppo turbato. Sorrise soltanto, nella penombra.

 

 

 

 

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