IL MIO INCIPIT

Non lo poteva soffrire, non lo aveva mai potuto soffrire.  Aveva deciso che lo avrebbe fatto quel giorno, non appena i genitori fossero usciti.
Così, quando sentì chiudersi il cancello automatico ed ebbe la certezza di essere solo, andò in garage e prese la pala.
Salì al primo piano e prima di introdursi in salotto la nascose dietro la schiena.
Come aveva immaginato, Fred dormiva sulla poltrona, la televisione accesa, una luce soffusa che illuminava delicatamente la stanza.
Gli si avvicinò senza fare il minimo rumore. Fred continuava a dormire.
Ma così non c’era gusto. Doveva svegliarlo e così fece, carezzandogli la testa.
Fred si svegliò ma non si mosse, nemmeno quando vide la pala alzata sopra di lui.
Il colpo fu secco e repentino e bene assestato, nemmeno una goccia di sangue. E George provò una soddisfazione immensa che non avrebbe mai dimenticato quando vide il cane con la testa fracassata.
La stessa soddisfazione che provò vent’anni dopo quando massacrò i genitori.
Questo era George.

 

1. sviluppo del mio incipit da un mio compagno di corso

Questo era George, prima che un curriculum di quarantasette rapine e almeno sessanta omicidi, dei quali dodici di natura sessuale, gli meritassero il soprannome del Macellaio di Hereford.
Dopo aver massacrato i genitori, si è mosso da una città all’altra per un paio di anni, scendendo da Amarillo fino ad Arlington e Dallas, vivendo di espedienti.
Un conducente della Greyhound che voleva multarlo perché senza biglietto, un paio di barboni che non volevano lasciargli spazio per la notte in un palazzo in costruzione e una anziana donna nel parcheggio di un drugstore, sono le prime vittime di cui abbiamo avuto notizia.
Tutti e quattro sono stati ritrovati con il cranio fracassato e tutta una serie di altre ferite, differenti da caso a caso.
Una volta giunto a Dallas, George ha fatto un primo salto di qualità e dalle rapine ai drugstore è passato ad occuparsi di piccole filiali di banca. Dietro di sé ha lasciato almeno un cadavere per ogni rapina con cui siamo riusciti a collegarlo. All’inizio uccideva in preda a scatti d’ira, aggredendo il cassiere che temporeggiava o la guardia che aveva provato a fermarlo. Da un certo punto in poi, le uccisioni sono diventate quasi l’introduzione alla rapina, una sorta di messaggio forse per rendere più malleabili quelli che rimanevano in vita, così da sbrigarsela con meno difficoltà.
A volte utilizzava un coltello militare, più raramente una pistola, ma nella maggior parte dei casi preferiva uccidere a mani nude, con colpi devastanti, calci e pugni o utilizzando qualsiasi oggetto potesse capitargli sotto mano. In questi casi la violenza con cui si accaniva sulla vittima era sempre maggiore, in un crescendo sadico che sembrava aver poco a che fare con la rapina stessa. Un tracciato di violenza apparentemente gratuita che, lasciata Arlington, ha segnato Hillsboro, Waco e Round Rock, fino ad Austin.
Per tre anni mi sono riletto il suo fascicolo. Ho imparato praticamente a memoria tutto ciò che le polizie locali e noi dell’FBI siamo riusciti a ricostruire. Il profilo psicologico tracciato dagli esperti, il modus operandi, gli spostamenti, i contatti conosciuti, tutto.
La sua violenza mi è entrata dentro, come un’ulcera nello stomaco, con un’acidità che ormai non mi lasciava gustare alcun tipo di cibo. Il mio matrimonio stava andando a puttane, il mio corpo pure. Ero ossessionato dalla sua faccia, sfocata nei filmati di sorveglianza dagli scenari delle sue rapine.
Conosco il suo modo di camminare. Ormai riesco a vedere l’attimo in cui contrae i muscoli delle spalle, appena prima di sferrare il primo colpo. Conosco le sue abitudini, i suoi gusti, anche in fatto di donne. Preferisce le bionde, soprattutto quelle tinte in modo vistoso e dozzinale. Che siano prostitute, impiegate, studentesse o casalinghe non importa.
Questo almeno ci dicono i cadaveri delle disgraziate che ha violentato. Su tutte poi si è accanito, spaccando loro il cranio, anche a mani nude contro l’asfalto o un muro.
In questo modo, una rapina dopo l’altra, un cadavere dopo l’altro, sono arrivato a conoscere praticamente tutto di lui, di come si muove, come colpisce, forse anche come pensa.
Solo non ne conoscevo ancora l’odore e non lo avevo mai toccato.
All’inizio volevo consegnarlo alla giustizia, perché questa facesse il suo corso.
Poi mano a mano che mi è entrato dentro, l’ho visto nella sua vera luce. Ho capito che lui è la bestia. Va oltre il concetto di giustizia, di bene e male. O forse ne sta al di sotto, un animale primordiale che segue solo l’istinto.
E io sono il suo cacciatore. Io devo fermarlo.
Così ho fatto, tre mesi fa.
Sono riuscito a sentire il suo odore fresco, a trovare il giaciglio ancora caldo. Ho visto i suoi movimenti prima che li facesse, ho capito quale sarebbe stato il suo prossimo pasto, quale sarebbe stata la nuova vittima e sono andato lì prima di lui, ad aspettarlo.
Venti uomini, in un’azione coordinata con la polizia di Austin: una sparatoria, tre morti e un arresto.
Così ho potuto completare il quadro. Ho sentito il suo odore. L’ho avuto tra le mani e ne ho sentito la consistenza quando l’ho sbattuto contro il pavimento. E poi due mesi di interrogatori e colloqui con lo psicologo per scavargli dentro e guardarlo in faccia.
Pensavo sarebbe stato zitto, sprezzante. Una bestia non parla con i suoi carcerieri, eppure il Macellaio non ha fatto altro che parlare.  Ha raccontato i dettagli dei suoi crimini, rispondendo a tutte le nostre domande, ma, soprattutto, parlando a ruota libera di ciò che ha dentro, delle motivazioni, delle sensazioni del sangue sulle mani, della rabbia che scatena quando un qualche stronzo non vuole fare quello che lui gli chiede.
Quando inizia a parlare, non c’è verso di interromperlo o ricondurlo all’argomento della domanda. Va lasciato sfogare, altrimenti tace. Ha un chiodo fisso nei suoi racconti: il cane, la sua prima vittima. Ad essere più precisi, il cranio spappolato del cane, non il cane in sé.
- Non potete capire. Voi non avete le palle per capire. Siete schiavi, rinchiusi nelle vostre stupide paure.  Piccoli vermi.. riuscite almeno ad immaginare cosa vuol dire? Tutti i giorni qualcuno o qualcosa vi disturba. Da quando vi svegliate, fino a che non vi richiudete nuovamente nel letto, voi sopportate.  C’è sempre qualcuno che si prende qualcosa di vostro. Qualcuno che vi frega, che vi impedisce di riposare, di stare bene, di vivere come cazzo volete.
- Tu, dottorino, quanto lavori? Ti fai sicuramente il culo ad ascoltare tutto il tempo i deliri di quelli come me.  E ammettilo, per te noi siamo solo degli scarti, rifiuti.
- George, lo sai che non è così, altrimenti non ti dedicherei il mio tempo. Quello che tu mi racconti è importante… mi serve e ci serve, ad entrambi.
- Cazzate! Tu sei qui perché ti pagano per farlo e perché qualcun altro si è fregato i posti migliori. Tu sei rimasto indietro e sei qui. Con i tuoi vestiti da discount e quella faccia da sfigato, sei forse contento di essere qui?
- No, eh? Beh! allora forse puoi immaginare cosa voglia dire alzarti in piedi e con una pala spaccare la testa di chi ti ha fottuto, di chi si è preso quello che doveva essere tuo. Riesci a immaginare il sollievo, il senso di libertà? Il senso di potere assoluto mentre guardi i suoi ultimi respiri, mentre vedi che non ha più neppure gli occhi per guardarti mentre muore?
- No, George, non lo immagino affatto. Tu lo hai provato e secondo la tua opinione, solo tu tra noi conosci quella sensazione e se non me la racconti, io non posso conoscerla.
- Hai ragione, stronzetto. Si diventa onnipotenti quando si supera quel limite. TI alzi in piedi e solo allora esisti. Voi non esistete.. voi non siete niente e lo sapete. è la vostra condanna. Io sono quello libero e voi quelli in gabbia, rendetevene conto.
- Perciò, George, se tu ti sei liberato uccidendo il cane dei tuoi genitori, se sei diventato onnipotente, perché poi hai continuato ad uccidere? Perché hai dovuto rifarlo?
Questa era una delle domanda che non sopportava.
Ogni volta grugniva e taceva. Una volta ci ha sputato addosso.
Una volta invece ci ha risposto.
- Quando provi qualcosa del genere, niente altro può essere uguale. Droghe, alcool, sesso.. niente ti dà la stessa scarica. Ne ho scopate tante, lo sapete, no? Eppure non valgono nulla, neppure quando urlano e scalciano. Non riescono mai a scappare, tu le domini, sei il dio della loro vita, in quel breve momento. Ma non è la stessa cosa. È poco più di niente. Quando invece qualcuno ti attacca, quando qualcuno ti sfida e tu lo annienti, lì sta il potere, il piacere. L’orgasmo dell’onnipotenza… ma voi cosa ne potete sapere?
- Cos’è che ci rende ciò che siamo? Il nostro cervello e le cazzate che contiene. Ecco, provate a guardare un cervello, dal di dentro, spappolato, tra pezzi di ossa e sangue. Lì dentro non c’è più niente e se quello che c’era lo avrete spento voi, capirete cosa sto cercando di farvi capire. Ma proprio non vi entra in testa, eh?
- Quel cane mi ha fatto capire, mi ha mostrato una strada. Io poi la ho percorsa, ma non era mai uguale, per quante persone uccidessi, non erano mai come la prima volta.  Non ho ancora capito perché, ma magari potrò fare tanti altri esperimenti, no? Anche in carcere ci sono tante teste, ne avete due anche voi.
In carcere però il Macellaio non ci è mai arrivato. Tre giorni fa, grazie ad uno stupido incidente stradale, è riuscito ad evadere durante il trasferimento alla prigione federale.
Abbiamo trovato già tre cadaveri che portano la sua firma. Il conto continua a crescere. La bestia è libera di nuovo.
Per poco, ancora.
Mi sento come se ora che conosco il suo odore, lo potessi sentire e seguire come una traccia nell’aria. Ho annusato in giro e lo ho beccato. è entrato in quella casa bianca, la terza di Elm Street. è una casa di spaccio, gestita da una gang di ispanici che controlla il traffico nella zona sud-est di Austin. Sicuramente vuole fregarsi i loro soldi ma forse è entrato proprio lì perché, dopo tre mesi di pausa, vuole delle prede diverse. Questi sono bestie, non al suo livello, ma che sanno come difendersi, come combattere, come uccidere. Forse è un nuovo gradino nel suo processo evolutivo, alla ricerca di una sferzata di onnipotenza, di un orgasmo di sangue.
Ogni testa che fracasserà sarà un favore per la comunità, almeno questa volta.
Ho fatto circondare la casa da due squadre SWAT. Nessuno può uscire senza che lo blocchiamo e non ho proprio voglia di perdere altri uomini.  Questa volta la bestia verrà catturata dal ragno.

 

2. sviluppo del mio incipit da altro mio compagno di corso

Questo era George.] Eppure, ormai, erano passati dodici anni e i dottori che lo avevano seguito durante la sua lunga detenzione sostenevano, convinti, che era profondamente cambiato. La giovane professoressa Klain, brillante psichiatra e criminologa all’ università di Boston aveva redatto un voluminoso dossier in cui si dichiarava entusiasta del cambiamento di George: il carcere duro e quella nuova cura farmacologica in fase ancora sperimentale lo avevano davvero trasformato, spegnendo i suoi istinti omicidi e rendendolo docile come un cucciolo. Evidenziava, la celebre studiosa, quanto egli fosse diverso dal George che aveva varcato la soglia del St. Sebastian Criminal Hospital il 23 Luglio del 1995: all’epoca ci erano voluti due nerboruti infermieri per tirarlo giù dal furgone che dall’aula di tribunale lo aveva trasportato direttamente alla clinica. Nonostante fosse stato tradotto in manette, George si agitava come un indemoniato ed era impossibile tenerlo fermo. Ciò che stupiva di più chi aveva assistito alla scena era il contrasto tra la sua corporatura media e la sua forza da mastino ringhioso. Ad un tratto George era riuscito ad estrarre, da un’intercapedine che si era ricavato nella cintura, un piccolo bisturi con cui aveva ferito all’addome uno degli infermieri che stava tentando di tenerlo fermo. All’altro aveva rifilato una violenta testata, riducendogli in frantumi il setto nasale. Neutralizzati i due, George si era messo a correre a perdifiato verso l’uscita, con le mani dietro la schiena, ancora ammanettate. Era stato, però, prontamente bloccato da uno degli agenti di polizia lì presenti, che con lo sfollagente aveva iniziato a colpirlo violentemente alle costole, al basso ventre e al volto, non smettendo neppure dopo che lo aveva visto crollare a terra stremato e sanguinante. I giorni successivi al ricovero in clinica non erano stati da meno: l’indomani poco c’era mancato che non strangolasse Frank Di Vito, un paffuto pizzaiolo di origini italiane che, accecato dalla gelosia, aveva ucciso a colpi di fucile la moglie e il suo giovane amante. Poi, con maniacale meticolosità, aveva orrendamente sezionato i loro poveri corpi e li aveva cucinati, dandoli da mangiare ai suoi due pittbull.
Frank gli aveva detto che, con quei capelli con la riga in parte e quegli occhiali quadrati sembrava uno di quei tanti frocetti annoiati di Harward che avevano ucciso i genitori in preda a qualche droga “ da ricchi ” e che avevano fatto bene a rinchiuderlo. George non lo aveva nemmeno lasciato finire di parlare che già gli aveva stretto le mani al collo digrignando i denti e sussurrando qualche frase incomprensibile. Se il personale della clinica non lo avesse fermato, sicuramente lo avrebbe ucciso. Un altro giorno aveva picchiato selvaggiamente un anziano detenuto che, furtivamente, gli aveva rubato un pezzo di mollica dal piatto, visto che non aveva denti sufficientemente forti per mangiare la carne che gli avevano dato, dura come il cuoio. Questo era George, un uomo in perenne balia dei suoi istinti crudeli e violenti, pronto a uccidere senza sapere nemmeno lui il perché. Alle volte, aveva confidato alla professoressa Klain, sentiva dentro di sé una forza montare giorno dopo giorno, come una belva che cresceva in fretta e che squassava ogni più piccola fibra del suo essere. Quando questo feroce animale era divenuto troppo grande, lui capiva che era giunto il momento di uccidere. Altrimenti sarebbe stata la belva ad uccidere lui. Inutile sarebbe stato qualsiasi altro tentativo da parte sua di sottrarsi al proprio destino: il feroce mostro lo avrebbe lasciato in pace solo se lui l’avesse saziato con qualcuno da uccidere. George aveva iniziato quando era piccolo, con un passerotto che aveva trovato in giardino e che aveva stretto forte forte con la manina. Da lì non si era più fermato. Un’altra volta aveva ucciso un gattino bianco appena nato, tirandogli il collo. Con forza. Ma, sicuramente, l’animale che aveva ammazzato con maggior godimento era stato Fred, il suo bellissimo setter. Arrivò, poi, il giorno che, ormai ventisettenne, aveva deciso di uccidere i propri genitori.
La professoressa Klain lo aveva seguito passo passo nel suo cammino di riabilitazione sociale, registrandone i miglioramenti e seguendo personalmente la somministrazione del nuovo farmaco alla base della cura da lei ideata e sostenuta nel suo ultimo best-seller. In ogni trasmissione televisiva in cui veniva invitata, l’avvenente dottoressa non mancava di evidenziare la bontà dei risultati ottenuti da questa nuova cura e la necessità di reinserire socialmente i detenuti ormai perfettamente guariti. Infatti, sosteneva la Klain, “il manicomio criminale è una struttura obsoleta e ingiusta nei confronti dei malati che, prima di tutto sono delle persone”. Partendo da considerazioni iniziali di carattere scientifico, finiva ben presto per fare valutazioni più squisitamente politiche e sociologiche, arrivando a sostenere che “il novanta per cento dei detenuti nelle carceri psichiatriche non sono pericolosi e che andrebbero rimessi in libertà dopo esser stati curati con la sua infallibile terapia”. Spesso e volentieri, la psichiatra poneva come esempio di paziente-modello George. Certo, a dire il vero, più di qualche volta aveva nutrito dei dubbi circa l’effettiva riabilitazione dell’uomo, ma non aveva dato più tanto importanza alla cosa. Del resto non poteva permettersi di sbagliare: la casa farmaceutica che produceva questo mirabolante farmaco era anche una delle maggiori finanziatrici della campagna elettorale per il senato di suo marito, l’industriale magnate dell’acciaio Jack Berendson. Se fosse riuscita a dimostrare la validità delle proprie tesi scientifiche, cinquantamila ospedali psichiatrici degli Stati Uniti sarebbero partiti, il prossimo anno con la sperimentazione della cura, assicurando svariati milioni di dollari alla multinazionale farmaceutica in questione. Da lì, poi, sarebbe stato un gioco da ragazzi per il neo-senatore Berendson, far approvare una legge che rendesse obbligatoria la nuova terapia in tutti gli ospedali psichiatrici della nazione. Di fronte alla prospettiva di un tale progresso scientifico i dubbi circa la reale guarigione di George venivano frettolosamente accantonati.
Da lì a qualche giorno George, perfettamente guarito, sarebbe uscito di prigione per iniziare la sua nuova vita. Il programma di riabilitazione prevedeva che lavorasse come bibliotecario in una scuola di un comune di centocinquantamila anime sulla costa est. Sembrava un lavoro ritagliato su misura sul carattere del “nuovo George”, il caro vecchio e mite George. O così, almeno, pensavano tutti quelli che erano convinti di averlo studiato e capito fino in fondo.

 

 

 

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